22 novembre 2017

22 Novembre Santa Cecilia: il nome che abito

Santa Cecilia di Artemisia Gentileschi: dipinto a olio su tela (108x78,5 cm) realizzato nel 1620 circa dalla pittrice italiana, conservato nella Galleria Spada di Roma.



Si narra che “la Santa invece di morire cantasse lodi al Signore” e la leggenda recita che per questo Cecilia sia stata eletta patrona della musica e dei musicisti.

Il 22 è un numero a cui sono molto legata, ricorre nella mia vita non solo a partire dall'onomastico (22 Novembre, Santa Cecilia). Scomodando per un momento la numerologia, si  scopre che è un Numero Maestro come tutti i numeri in cui si ripete la stessa cifra (11, 22, 33), che la sua cifra ridotta dà il 4 (2+2) – numero fin dai tempi antichi associato alla Madre Terra (richiama equilibrio e contatto con le proprie radici, stabilità e sicurezza) e che

"il 22 è musica, poesia, relazione, attrazione e repulsione, il rapporto intimo, il paradiso perduto, una situazione fanciullesca e di innocenza che può maturare in creatività evoluta o ristagnare nell’apatia del “non crescere”. E’ la capacità di essere in ascolto, della relazione empatica, della dolcezza e dell’aiuto altruistico, dell’armonia, ma anche il riconoscere le proprie ombre così come le proprie luci. E’ un’oscillazione tra conscio ed inconscio, tra realtà e sogno, tra vita e morte. C’è in questo 22, in cui la cifra 2 viene amplificata la tendenza ad oscillare tra due poli opposti per permettere alla propria psiche di integrare con lentezza e pazienza tutti gli aspetti di se, venendo a conoscenza anche di quelle parti meno accettate o riconosciute. Il 22 è il regno illusorio degli opposti, la vita è percepita come una proiezione dualistica in cui niente è come sembra, ma il mondo viene percepito come proiezione delle proprie parti di se e in definitiva tutta la realtà esterna è un riflesso di chi guarda …"  (da Il significato dei Numeri Maestri – Numerologia – La giostra del sole)

"Il cambiamento ti aiuta a lasciare andare tutto ciò che per te è ormai superato. Anche se dici addio al passato, conserverai per sempre nel tuo cuore l'amore e le lezioni che hai appreso: sono tesori che ti accompagneranno per il resto della vita. Dai il benvenuto alle persone nuove, ai posti nuovi e agli eventi che stanno per accadere. Non c'è niente da temere nel tuo futuro: sarà felice, luminoso e ci sarà di che divertirsi" (Arrivederci, Unicorn number 22 - Alghero estate 2017)


Ho abitato fino a l’altro ieri in una casa al civico 22 (e non l’ho certo fatto apposta quando ho cercato casa al momento di trasferirmi a Torino), e tanti altri simpatici dettagli legati a questa “ricorrenza” o sincronicità che dir si voglia ne avrei a bizzeffe.



Ma non mi interessano a tal punto, Ora, se non per evocare la concretezza del fatto che tutto, nella vita, è simbolo, simbolo che rimanda a realtà essenziali, invisibili e profonde a cui la nostra attenzione, spesso, sfugge. Non si tratta di essere superstiziosi o esoterici o new age o spirituali, ma essenziali e, dunque, davvero originali (essere originali non vuol dire che questo, tornare alle origini). L’essenziale è invisibile agli occhi, recita la famosa frase de Il Piccolo Principe e – che si voglia chiamarlo dio, universo, anima, spirito, essere psichico, maestro interiore, angelo, dio ignoto – è sposandoci con tale realtà invisibile depotenziando l’oggettività del reale, che la nostra libertà, pienezza, integrità di vita si compie, finalmente. Senza sforzo. Accade.

Per cui - al di là di interpretazioni mentali che imprigionano ancora di più (i simboli, così come i sogni, non andrebbero né interpretati né analizzati)
 – di questo numero doppio maestro nell'arte dell’oscillazione degli opposti, mi tengo cara proprio la suggestione di svuotamento letterale di qualsiasi forma di opposizione: nascita, morte, luce, ombra, l’uno, l’altro… Cosa rimane, in fondo?

Qualche considerazione la scrissi a suo tempo qui, dopo l’incontro con il filosofo Giorgio Agamben al Salone del Libro di Torino: Cosa rimane della vita? Ciò che resta è la lingua della poesia. Poesia che non si riduce allo scrivere poesie, piuttosto a uno stare poeticamente al mondo, come direbbe Hölderlin.




Dunque, mi tengo stretta anche la relazione con l’arte di cui il personaggio di Cecilia si fa portavoce o simbolo, come dicevo. Archetipo, se preferiamo. La musica, che a me piace estendere a tutto il sottofondo della vita, il Suono primordiale dell’essere.

Si narra che “la Santa invece di morire cantasse lodi al Signore” e la leggenda recita che per questo Cecilia sia stata eletta patrona della musica e dei musicisti. 



Musica e melodia sono parole estendibili all'intera creazione e a ciò che sostiene la vita intera.  L’armonia che compone uno spartito musicale, la grazia di una danza che trova in un corpo libero da tensioni e condizionamenti la sua pergamena d’oro, l’eleganza senza sforzo di una partitura che ritma la vita fin nel midollo, come il respiro o il battito del cuore, tocchi invisibili che pur rendono vitali il nostro passaggio sulla terra.
Pertanto, personalmente il 22 Novembre lo prendo come un giorno di ringraziamento generale, alla magia della vita a cui il mio focolare interiore tende come unica meta, ormai da raggiungere: nessuna. Nessuna, se non rimanere accesa, nutrire il fuoco dell'essere, scaldarmi con il calore della consapevolezza istante dopo istante, accogliere il momento presente come corroborante benedizione. 

Sul deserto di Capo Verde …


Il nome che indosso fa certo parte della mia storia personale, riecheggia di radici e di antenate che posso ancora contattare quando mi ricordo che l'amore è tutto ciò che conta. Non è la personalità egocentrica a cui mi riporta il suono di Cecilia, ma un'essenza inviolabile, impersonale eppure inimitabile, senza contenuti né memorie né fantasticherie ma colma di talenti che si esprimono nel momento della resa totale. È la Cecilia del Surrender, dell'antenata di cui porto il nome, che soleva dire "per raggiungere lo stato di grazia, bisogna essere nella grazia dello stato".

La statua in marmo di Santa Cecilia di Stefano Maderno (1600) è conservata nella Basilica di Santa Cecilia in Trastevere di Roma.



Informandomi sulla storia di Santa Cecilia, mi sono imbattuta a più riprese sull'esistenza di una statua-capolavoro che rappresenterebbe il momento della ricognizione del corpo della martire, ancora nella posa seguente l'atroce tortura. Posa per certi versi innaturale ma che sembrerebbe riportare abbastanza fedelmente l'atteggiamento in cui venne ritrovata e al quale si è ispirato lo scultore semisconosciuto Stefano Maderno seguendo la descrizione rilasciata da 
Antonio Bosio (1575-1629) archeologo e studioso della storia antica della Chiesa che partecipò alla famosa ricognizione del corpo di Santa Cecilia avvenuta il 20 ottobre del 1599 a Roma. Viene ricordato come  uno degli eventi più noti della storia religiosa moderna. 
Ebbene, tornando alla statua del Maderno, al linguaggio cioè dell'arte più consono per continuare a evocare lo spirito di Cecilia, quello che colpisce maggiormente è l'emanazione di

un sentimento di «totale abbandono», accentuato dall’assenza del volto e dalla presenza di un panneggio che – sostituto di un ben più macabro flusso – ricopre fin sopra il capo il corpo esile della martire.

(cit. Marco Dotti "Sotto il velo della Santità") 

Il totale abbandono. Surrender... 
Quale migliore monito alla pura presenza, alla sacralità di ogni momento vissuto non dalla parte del fare ma del non fare - cioè dell'essere! Dello stare in ciò che c'è, con la pienezza ricettiva dell'abbandono. La zia di cui porto il nome - donna straordinaria che ha ostinatamente perseguito la sua missione di essere Madre in un altro modo, andando contro alle aspettative genitoriali e alle convenzioni sociali - non posso riassumerla in questa sede. Non posso riassumerla. Magari, un giorno, chissà… scriverò un libro! Di fatto, la sua folgore da Amazzone rimane quella mano invisibile sulla nuca che mi accarezza quando penso di non farcela. 

Tornando alle cronache legate alla storia della martire romana, si narra che 

Cecilia venne trovata «adagiata sul lato destro, le ginocchia appena ripiegate», con «una stoffa leggera di seta verde, rigata di rosso scuro, che avvolgeva interamente il suo corpo disegnandone esattamente le linee». Le sue membra si mostravano «perfettamente integre», la sua carne intatta, screziata solamente da una lieve rigatura di sangue rappreso, che traspariva da sotto il velo
(cit. Marco Dotti "Sotto il velo della Santità") 

Di nuovo, una posatezza nello stato di grazia anche nel momento più estremo della morte violenta, l'affidamento estatico che quasi riconduce le membra scomposte dall'atrocità del momento a una compostezza fluida impossibile a concepirsi con l'occhio della sola ragione.




Stamattina, mentre "festeggiavo" l'inizio di questo giorno così denso di ispirazioni per me, davanti al mio latte di soia e cornetto vegano nella mia pasticceria preferita, mi sono uscite queste parole, con cui concludo:


"Ho seguito i maestri che di volta in volta comparivano sulla mia strada, alcuni li ho emulati, altri ascoltati, di altri mi sono persino innamorata forse sconsideratamente, ho preso tutto quello che potevo da un forziere che appariva sempre più ricco man mano che le fessure del mio corpo che io chiamavo ferite, venivano in qualche modo curate. Ma, ma c'era sempre un ritaglio di me che urlava qualcosa di inimitabile, la parte intima, esclusiva e autentica che nessuno avrebbe potuto illuminare con la propria luce e, per questo, tanto più sofferente e insoddisfatta, quanta più gratificazione riceveva dall'esterno. E, soprattutto, sempre schiva a volersi riassumere in qualche pratica definitiva, visione del mondo, metodo di guarigione, disciplina spirituale e via dicendo. Questa parte di me, unica e inimitabile, sapeva già tutto, annusava periodicamente la grandezza suprema della vita, il talento di essere se stessa e basta. Senza dover fare, dimostrare, arrivare, raggiungere, ottenere, insegnare, scrivere, stravolgere qualcosa di esterno sempre proiettata in un altrove carico di aspettative. Non c'era nessun premio da vincere, l'unico tesoro davvero prezioso era la sua integrità da vivere momento per momento. Essere, non fare. Portare se stessa in qualsiasi cosa, situazione, singolo istante. 

Niente di eclatante serve all'anima che ritrova se stessa


Il mondo è pieno di cose ovvie 
che nessuno si prende mai la cura di osservare”.
(Arthur Conan Doyle)

Ancora qualcosa su Cecilia, la grande e la piccola, la potete leggere in questo vecchio post: 
LA BAMBINA CHE SI “FISSAVA” SULLA VITA


La canzone "Cecilia" di Simon and Garfunkel :-)






Non serve fare cose straordinarie, ma rendere straordinario tutto ciò che si fa



Fonte delle citazioni di Marco Dotti, Sotto il velo della santità: Santa Cecilia: https://tysm.org/santa-cecilia-maderno/


Il Mestiere del Dare
€ 8,00

IllogicaMente
€ 7,00

Nessun commento:

Posta un commento